Omar Onnis: Sfatare i luoghi comuni, l’innovazione nell’isola che non c’è

Parlare di innovazione in Sardegna sembra un paradosso. Abituati come siamo a considerarci arretrati, fuori dalla Storia, isolati, facciamo fatica a pensarci dentro i fenomeni economici e culturali della contemporaneità. Così come parlare di reti sociali, di economia delle relazioni suona dissonante rispetto alla nostra presunta propensione alla divisione. Eppure si tratta di stereotipi infondati, privi di appigli storici. È una mitologia deprimente e autoassolutoria quella che domina la nostra percezione di noi stessi. Sgomberare il campo da questa falsa coscienza è altrettanto importante che generare pratiche virtuose in termini economici e sociali. Le due necessità vanno a braccetto.
Lo si capisce chiaramente quando si fanno proposte innovative. Anche a livello politico-amministrativo vige una fortissima diffidenza verso soluzioni che esulino dalla prassi consolidata. Al netto dell’onnipresente clientelismo, giocano qui un ruolo anche la mancanza di fiducia, la chiusura culturale, la rassegnazione.
Non è un caso. Bisogna riconoscere che negli ultimi duecento anni ogni qual volta si è imposta una qualche forma di modernizzazione sull’isola, di solito ci si è ritrovati a gestire un fallimento. C’è stato un momento in cui una fascia sociale attiva, più istruita della media e capace di assumersi responsabilità generali è esistita, in Sardegna. È successo alla fine del Settecento e si tratta della compagine che guidò la Rivoluzione sarda. Sconfitta e eliminata (anche fisicamente) quella classe dirigente, dall’Ottocento in poi abbiamo costantemente subito una condizione di subalternità. La Sardegna è stata una mera pedina in mani interessate, un “oggetto storico”. Chi l’ha governata, lo ha fatto con il ruolo dell’intermediario, nella veste di garante della nostra condizione di dipendenza.
In questo contesto di dominio, gli interventi di modernizzazione sono sempre stati calati dall’alto e senza alcuna valutazione dell’impatto che avrebbero avuto sul tessuto produttivo, sociale e culturale dell’isola. Così fu per la privatizzazione delle terre comuni (le famigerate chiudende, che anziché spronare l’agricoltura, la affossarono), per la razionalizzazione fiscale (che equiparò la Sardegna agli altri possedimenti sabaudi del continente), per la valorizzazione del comparto minerario, per lo sfruttamento del patrimonio boschivo, per l’impianto dell’industria casearia. A ciò si aggiunsero gli scandali bancari e il regime protezionista imposto dallo stato italiano. Tutto questo, nel corso dell’Ottocento, si rivelò drammaticamente deleterio, per la Sardegna. Molto vantaggioso invece per speculatori e clientelismi politici. Si trattò di evenienze che indebolirono ulteriormente l’economia sarda e le reti di relazioni locali. Le varie comunità dell’isola rimasero esposte senza difese all’accumulazione rapace delle risorse e alla disarticolazione sociale. La ricchezza prodotta non aveva ricadute sul territorio, se non in termini di diseguaglianza crescente. Nel Novecento non è andata meglio. Il regime fascista sottomise l’isola alle esigenze dell’autarchia, facendone una sorta di colonia a disposizione delle esigenze dello stato centrale. Gli investimenti allora promessi e in parte realizzati servirono a questo scopo. Nel secondo dopoguerra, in epoca autonomista, l’approccio non è mutato. Ogni scelta fatta (dalla razionalizzazione del settore del credito, al Piano di rinascita) ha avuto obiettivi e modalità di applicazione che hanno sempre lasciato inevase le esigenze strutturali del territorio. Misure calate dall’alto, con accenti paternalistici, che si sono presto rivelate come forme di sfruttamento e di mero dominio, con la complicità di una classe politica sarda poco propensa ad assumersi responsabilità storiche.
Con tali premesse, maturare una forma spontanea di diffidenza verso qualsiasi proposta innovativa è il minimo. Tuttavia bisognerebbe chiarire che l’innovazione non è tale se non ha ricadute moltiplicative e diffusive dei vantaggi che se ne ottengono. In questo senso la Sardegna, in tutta la nostra epoca contemporanea, non ha mai conosciuto forme virtuose di innovazione. Salvo rari casi, per altro piuttosto recenti e dovuti a iniziative private e non a pianificazione politica, siamo stati tenuti al riparo da qualsiasi tentazione di trovare strade diverse da quelle battute e di mettere a frutto, in termini collettivi, la nostra creatività e i nostri talenti. Anche questo un paradosso, se si considera invece quanta creatività e quanti talenti sforna in continuazione la Sardegna, in vari campi.
Oggi siamo in grado di prendere coscienza degli errori del passato e siamo anche in grado di capire come e dove si può intervenire per migliorare il nostro tessuto produttivo e in generale la qualità della nostra vita. Conoscere la nostra storia, la nostra cultura, il nostro territorio è fondamentale per ideare interventi innovativi reali, produttivi, rispondenti ai bisogni delle nostre comunità e non a disegni di parte o a logiche speculative e/o spartitorie. Sperimentare soluzioni nuove può avere anche un effetto pedagogico, oltre che risolvere problemi pratici.
Spesso si racconta che mancano i soldi, che si deve tagliare qua e là la spesa pubblica perché lo richiedono le regole della stabilità finanziaria. Se si va a controllare come sono stati spesi negli anni i soldi pubblici, si scoprono però investimenti enormi ma improduttivi, finalizzati a mantenere sacche di assistenzialismo e di clientele elettorali, più che a risolvere questioni aperte.
Per questo può destare meraviglia e persino diffidenza che la Camera di Commercio di Nuoro decida di investire mezzo milione di euro non su una speculazione immobiliare o su qualche trovata  estemporanea per catalizzare denaro pubblico, ma per consentire ai propri associati e a chi abbia interesse di disporre di tecnologie innovative. È come se improvvisamente collassasse su se stessa la mole di luoghi comuni grazie alla quale possiamo comodamente non fare un tubo per risolvere i nostri problemi. È un’azione sovversiva, perturbante, simbolicamente scomoda. Invece si tratta soltanto di mettere a frutto ciò che nella riflessione economica, sociale e politica si sa da un pezzo. E che in Sardegna può trovare un terreno molto fertile per realizzarsi.
La collaborazione, le relazioni, il mutuo vantaggio, l’abbattimento dei costi di produzione grazie alla tecnologia e alla conoscenza dovrebbero essere punti di riferimento sicuri, nel marasma della crisi contemporanea. Specie in una terra che ha sempre mal digerito le imposizioni dall’alto, che non ha mai metabolizzato il tassativo rispetto delle gerarchie e che ha da sempre contato prevalentemente sulle reti locali, sulla forza data dall’unione e dal reciproco sostegno. Questi, che sono nostri tratti culturali profondi, continuano ad essere negati o misconosciuti, a vantaggio di stereotipi debilitanti che hanno molto meno riscontro nella nostra storia.
In un mondo in cui la produzione materiale si è ormai spostata in luoghi dove i costi di produzione sono minimi, anche per la scarsa remunerazione del lavoro e la scarsa attenzione alle norme di sicurezza e a quelle di tutela ambientale, è assurdo pensare di poter competere economicamente su quel terreno. Far leva sul talento e sull’inventiva dei Sardi, mettere loro a disposizione gli strumenti di base per poter lavorare e far fruttare la propria creatività, enfatizzare il valore aggiunto di produzioni locali infungibili, non replicabili su scala globale, è uno dei mezzi per irrobustire il nostro tessuto economico, senza aspettare favori, senza attenderci la salvezza da un altrove sempre lontano e sempre disinteressato (se non malintenzionato).
C’è una forza che non sappiamo di avere e che è necessario far emergere. In questo può essere una grande risorsa la nostra emigrazione. Un fenomeno che sta assumendo sempre di più i connotati di un dramma sociale di proporzioni storiche può essere rivalutato come una forma di investimento da cui trarre un profitto generalizzato. Le esperienze e le conoscenze acquisite da tanti sardi della diaspora possono e devono produrre ricadute in Sardegna.
Make in Nuoro racchiude e sintetizza tutti questi aspetti. È un esperimento che va nella direzione giusta, se vogliamo piccolo, rispetto alla scala generale dei nostri problemi, ma estremamente significativo.
Possiamo fare molte più cose di quel che pensiamo, se solo impariamo ad investire bene le risorse di cui disponiamo e metterle a frutto con le nostre capacità. Questo vale nel campo dell’artigianato, come in quello dell’agroalimentare, nel settore turistico come nella valorizzazione del nostro immenso patrimonio storico-archeologico, nel terziario avanzato come nelle arti e nella produzione culturale.
Non bisogna avere paura dell’innovazione. La Sardegna si è sempre tirata fuori da situazioni difficili avendo il coraggio di inventare soluzioni inedite. Non ci si può aspettare niente di diverso, da una terra “al centro della civiltà europea”, ricca, grande e piena di bellezza. Tutto sta a rendercene conto e a volerlo.